giovedì 3 dicembre 2009

In Cambogia

Lasciamo Surin e il suo festival degli elefanti (ca. 300 pachidermi riuniti per l'occasione, un banchetto "reale" per loro e una manifestazione davvero singolare, anche se un po' circense, per noi) e raggiungiamo la Cambogia, che ci siamo tenuti per ultima in questo viaggio che e' partito dall'occidente australe (Nuova Zelanda e Australia) per penetrare sempre piu' in Oriente.
Ci spostiamo, per la seconda volta, su lato destro della strada, ritroviamo le scritte in alfabeto latino e le baguettes, come in Laos, e diventiamo barang.
La Cambogia ci entra subito nel cuore e ora che ne abbiamo assaggiato un pezzetto ci viene la voglia di esplorarla bene in futuro... con delle bici piu' adeguate.

Elefanti e cetrioli
Prima di partire, finalmente, alla volta della Cambogia, ci godiamo il fantasmagorico festival degli elefanti, a Surin, un evento faraonico che coinvolge tutta la citta'. Per prima cosa vediamo la parata di carri allestiti con frutta a verdura con una perizia che ricorda i quadri dell'Arcimboldo, bande di ottoni (anche interamente al femminile), suonatori di strumenti tradizionali, danzatrici e danzatori in costume e ovviamente gli elefanti.
La mattina seguente assistiamo al famoso buffet, il piu' grande al mondo, dove scopriamo che anche i pachidermi hanno le loro preferenze: chi e' amante dei cetrioli (in molti), chi delle rape, chi delle banane...va poco invece la canna da zucchero e l'ananas, piu' faticoso da mangiare (con la proboscide si staccano il ciuffo verde!). Molti hanno la targa e dopo la colazione vengono usati a mo' di taxi in giro per la citta', cosi' che si passa vicino a loro anziche' ai triscio'!
Il clou della manifestazione e' lo show nello stadio, dove vengono fatti esibire insieme a vere e proprie schiere di comparse in costume, che danzano e suonano, ca. 300 elefanti: vederli tutti insieme e' emozionante. Avresti pero' voglia che diventassero consci del loro potere e rompessero le ridicole barriere per scappare nella foresta...
Approfittiamo della permanenza in citta' per... non stare fermi! Visitiamo i villaggi di Khwao Simarin e Ban Chock famosi per la lavorazione di tessuti di seta e argento, in particolare "perle" d'argento, lavorate a formare un pezzo a se', spesso in forme naturali (fior di loto, elefantini etc.), poi unite a formare le collane e i bracciali tipici.

Un popolo di sminatori
Gli ultimi km in terra thai sono gia' terra di nessuno, solo qualche pastore con vacche o bufale e alberi enormi, sparsi.
Arriviamo al posto di frontiera semi deserto di Chong Jom - Osmach. I doganieri thai ci riforniscono di acqua e ci trattano benissimo, facendo anche pubblicita' al sito archelogico dei vicini "scomodi".
L'ufficio doganale cambogiano e' vuoto, c'e' solo un fornello per terra insieme a della carne cruda, pronta ad essere cucinata a momenti (sono quasi le 12). Anche se con alcune lentezze burocratiche e un rimbalzo da uno sportello a un altro per timbri e moduli, otteniamo il visto (pagato in moneta thai e non locale!) e il via libera senza problemi.
Dalle 4 corsie perfettamente asfaltate passiamo a un km di strada in cemento che termina in una pista che prosegue a perdita d'occhio. E' rossa.
Sapendo che ci aspettano 40 km di sterrato (ma saranno 120), preferiamo fermarci qui, in mezzo al nulla, tra le folate di terra e qualche barracca, proprio baracca, di cartone piu' che lamiera, che fa da negozietto o "ristorante". Poco oltre, un campo rifugiati.
Pranziamo in uno di questi miseri luoghi, dove il pavimento e' esattamente come la strada: terra rossa e pietre e buchi. C'e' solo coca-cola, per la prima volta dalla partenza cediamo e ne prendiamo una in due. Con ghiaccio cambogiano.
Beviamo il caffe' nel locale a fianco, zeppo di uomini che guardano un incontro di thai boxe. L'oste e' l'unica donna, poi arriva Gaia. Gli avventori immediatamente ci fanno spazio e ci trovano due sedie. Ci beviamo il caffe' in un angolo, attaccati al bancone per permettere la visione della TV alla folla, che divide la sua attenzione tra noi e lo schermo. Nel tardo pomeriggio, si gioca a pallavolo in un campo vicino, cosa che vedremo fare in molti altri posti, essendo il calcio impossibile in molte parti del Paese a causa delle mine.
La sera raggiungiamo uno dei due posti dove cucinano, nel buio totale cercando di evitare le buche. Fanno zuppa ed e' pieno ancora di soli uomini. E' buonissima e del genere fai da te: ti danno la vedura, il fuoco e quando vuoi ti riforniscono di brodo che poi e' la cosa migliore. C'e' un signore che insieme ad un altro, parlando l'inglese, ci fa da cicerone culinario e spazio al tavolo. Mentre lui parla, l'altro traduce a un terzo che si aggiunto a mangiar zuppa.
C'e' una stellata incredibile e il silenzio della campagna povera, del dopoguerra, della Cambogia. In cima alla collina, la BRD con le sue luci sfavillanti, ma qui, in DDR, mangiano felici la loro zuppa di orgoglio nazionale. Khmer.
La guesthouse dove dormiamo e' molto meglio del previsto e i proprietari, nonostante non parlino che khmer, si adoperano per comunicare con noi.
Ora pero' alcune cose vanno dette. Non parliamo spesso della poverta' in cui ci troviamo, ma qui e' diverso; qui c'e' una poverta' data anche, acuita, da cio' che e' successo alla societa' cambogiana a partire dall'ascesa al potere degli khmer rossi.
Non e' bastato un regime totalitario e folle. Finito questo i "nuovi" governanti (solo alcuni delle centinaia di persone implicate nei massacri hanno avuto un processo e stanno scontando una qualche pena, vittime e aguzzini si incontrano al mercato...), hanno pensato di confiscare le terre coltivate ai contadini o a coloro che lo erano diventati per forza, e di dar loro in cambio quelle minate. I contadini sono diventati cosi' sminatori de facto: chi ha perso un braccio, chi una gamba, chi entrambe, chi gli occhi, chi la vita. Le terre date come bonificate erano in realta' piene di mine antiuomo. La Cambogia ha due tristi primati, il piu' alto numero di invalidi legati alle mine e il campo minato continuo piu' lungo al mondo. Persino il sito di Angkor e' stato minato.

Polvere e sudore
La strada che da Osmach porta a Samraong e' di terra rossa, ma piu' che buchi ci sono fossi, probabilmente fatti dall'appena trascorsa stagione delle piogge, e ora e' come il greto di un fiume: le acque ritirate lasciano cicatrici profonde con le quali chi passa deve fare i conti. Acqua e cicatrici d'acqua, questa e' la pista di oggi.
Il vento per fortuna sgombra velocemente la molta polvere sollevata dalle auto lanciate a folle velocita' verso chissa' cosa. In bici solo bimbi e ragazzi, gli altri in bilico, sui tipici motorini asiatici. Del resto, chi sopravvive qui, chi sopravvive a Pol Pot, non puo' temere le voragini e la sabbia dei greti in secca. Durante il suo regime, l'intera popolazione di Phnom Penh e' stata forzata ad andare nelle campagne, la proprieta' privata e la moneta (!) soppressa, la gente obbligata percio' al baratto, medici, insegnanti, artisti, monaci rinchiusi in campi e spesso tortutati e uccisi. Un sesto (1/6!) della popolazione del tempo e' stata massacrata in un modo o nell'altro, la cultura annientata.
Non c'e' un paesaggio, oggi, ma solo il rosso della strada, brullo, campi minati, ma anche qualche albero gigantesco, bellissimo, sopravvissuto alla devastazione della guerra.
La gente ha visi stupendi, i piu' belli visti fin'ora. I volti di alcuni bambini fanno venire le lacrime, la loro bellezza, mista allo stupore e al moccio dei nasi.
Cerchiamo di salutarli tutti (ma sono davvero tanti: meta' della popolazione e' al di sotto dei 15 anni!), per mostrare anche ai piu' stupiti che, nonostante il travestimento, la razza e' la stessa!
I ciclisti sono decisamente la categoria di barang piu' prendibile, in tutti i sensi: alcuni bimbi superano Gaia, agili sulla sabbia. I piu' piccoli restano comunque a bocca aperta al nostro passaggio. I saluti dei bambini, quando li contraccambi, diventano sorrisi senza confini che ti penetrano nel cuore.
Ale e' un mostro per i primi 20 km, si agita, sbraita, dice che Gaia deve comprarsi il famoso materasso volante, checolcavolochefailgirodelmondoinbici! Ma Gaia continua ad andare come puo'
(anche spingendo). Poi si rilassa e gli si puo' parlare. Viaggiare con lui in bici e' un po' come fare l'addestramento col monaco taoista di Kill Bill: e' dura, ma se lo completi, poi magari riesci a liberarti da una tomba se ti ci rinchiudono viva!
A Samraong dormiamo ancora una volta nel silenzio quasi assoluto della natura. Quando arriviamo siamo completamente ricoperti di terra rossa, noi, le borse e le bici. Anche qui usano la mascherina, ma non per la H1N1, ma per non mangiare la polvere di cui sono fatte quasi tutte le strade ad eccezione delle due strade che tagliano il Paese da est a ovest, una verso Siem Reap e l'altra verso Phnom Penh.
Da Samroang a Kralanh ci sono altri 80 km di sterrato, anche se in buone condizioni; infatti, compaiono, oltre alle moto, strani furgoni "aperti", senza parabrezza, il cui conducente viaggia col casco integrale da moto, adibiti a trasporto pubblico, inesistente qui. C'e' anche un venditore porta-a-porta di ogni tipo di recipiente, compresa le padelle, in terracotta. Per preservarle, e' carico di paglia! Complessivamente, percorriamo piu' di 120 km continuativi di sterrato, il piu' lungo tratto in bici da noi mai effettuato, ivi compreso il Madagascar.
A poco piu' di meta' strada, veniamo salutati da un gruppo di studenti adolescenti, tra cui ne spicca uno, elegantissimo, con un enorme fascino e un aplomb british. Ci fermiamo a scambiare quattro chiacchiere, piacevolmente colpiti dal suo inglese fluente, dal suo portamento da divo hollywoodiano e dall'eleganza fuori posto, superiore alla polvere che travolge tutto e tutti.
Ci resta impressa la sua frase, fuori luogo, come lui: " I know European people love activity... ma se me lo chiedeste, io a Siem Reap ci andrei in macchina! E' cosi' distante e fa cosi' caldo!"
Notiamo subito che, anche in queste zone quasi irrangiungibili e poverissime, le case nuove, sono di una qualita' superiore a quelle fin'ora viste altrove e con un'attenzione al dettaglio rimarcabile; ricordano, in meglio, quelle tipiche australiane (queenslander). Se la ristorazione veloce va lasciata ai thai, le case fatele costruire agli khmer!
Finalmente, passiamo interi insediamenti, non sappiamo se veri e propri villaggi, risaie, allevamenti, di anatre e mucche. Molti dei campi sono recintati perche' la zona ancora non e' stata tutta messa in sicurezza. Per fare i nostri bisogni, restiamo sulla strada, facendo attenzione che non arrivi nessuno.
La luce ricorda le giornate limpide al mare, a giugno; invece siamo tra il verde surreale di queste risaie recuperate alle mine.
Poco prima di raggiungere l'asfalto di Kralanh, incontriamo Hirsch, un americano, cicloturista in giro da 5 anni. Scambiamo informazioni sulla strada e indirizzo mail e ci diamo appuntamento a Bangkok (lui torna a casa da li' per Natale, per fare una sorpresa ai suoi).
Noi ci fermiamo nell'unica guesthouse di questa cittadina per ripartire poi alla volta dei templi di Siem Reap. Ci sono due piccole "serve" che puliscono i bagni. I bambini che lavorano sono tanti, in un Paese senza alcun tipo di welfare: bimbe troppo piccole per aprire la porta di una stanza, la devono pulire; bimbi che non hanno un letto, lo devono rifare; bimbi sfruttati sessualmente (la Cambogia sembra essere la nuova Mecca dei pedofili); bimbi che non hanno da mangiare, mentre i nostri ne hanno cosi' tanto da diventare adulti obesi e malati. Bimbi che non vanno a scuola o che ci vanno solo part-time, quando si puo'; bimbi che pero' ti salutano sempre.
Anche dove c'e' l'asfalto, la diversita' con i Paesi vicini e' palpabile: pochissimi e poverissimi i venditori di cibo di strada, quasi nessun dolce in vendita (e chi ha i soldi per comprare?).
Spesso vediamo giusto venditrici di riso glutinoso cotto nel bambu': prima dell'avvento del regime degli khmer rossi, la Cambogia era tra i maggiori esportatori di riso al mondo. Poi la carestia e la fame, cosa mai sperimentata prima dalla popolazione.

Siem Reap, Siam sconfitto
Ancora oggi, l'antica rivalita' e' inscritta nei toponimi khmer: Siem Reap significa infatti: "Il Siam (l'antica Thailandia) e' sconfitto".
Questa citta', come ci aveva anticipato il nostro cicerone culinario, e' molto diversa dal resto del Paese: arrivi qui e, a parte il delirio del traffico (secondo soltanto a quello indiano, dove tutti fanno quello che vogliono e non si rispetta nemmeno il semaforo, suonando in continuazione), sembra di essere in una cittadina europea, zeppa com'e' di ristorantini super perfetti, hotel anche di super lusso, boutiques con l'artigianato piu' pregiato.
Se il delirante regime comunista aveva eliminato la moneta, qui e' un tripudio di dollari, tutti hanno esposto il menu' in dollari, gli hotel chiedono dollari, persino le bancarelle di frutta (anche se poi accettano la loro moneta, il riel). Se le citta' erano state svuotate, ora tutti cercano di viverci, per cercare di raccattare qualche pezzetto della ricchezza lasciata dai moltissimi turisti o anche solo per poter usufruire dei servizi offerti dalle molte ONG presenti (c'e' un mitico ospedale dei bambini gratuito, gestito da un incredibile dottore che il sabato suona il violoncello per raccogliere fondi; una folla e' sempre radunata al suo esterno). Se avevano cercato di far scomparire ogni traccia della cultura khmer, moltissimi sono gli artigiani e gli artisti che qui lavorano. Se la fame e' stata la costante per moltissimi anni (e lo e' ancora per molti), qui si formano i migliori cuochi del Paese e qui c'e' stata una vera e propria rivalutazione della cucina khmer.
Siem Reap ha piu' mercati; quello notturno e quello "vecchio" sono letteralmente presi d'assalto e offrono un'incredibile varieta' di oggetti d'artigianato fatto anche con materiali di riciclo (alla cubana, all'africana), ma di un livello davvero notevole. La seta e' il pezzo forte tra i prodotti in vendita, il loro design non ha nulla da invidiare a quello della cosiddetta alta moda (ad es. le borse). Moltissimi prodotti sono fatti da piccole imprese di donne o di persone diversamente abili (qui questo termine ha davvero senso). Moltissimi bambini e uomini che hanno perso arti sulle mine vendono i terribili libri che raccontano della terribile storia della Cambogia per guadagnarsi un pezzo di pane. Gente orgogliosa che spesso parla lingue straniere. Poi ci sono anche i poverissimi, fuori anche dai circuiti dell'aiuto che chiedono le elemosina, quasi tutte mamme con neonati che ti si strappa il cuore quando, mente passeggi o mangi ai tavoli ti si avvicinano e sussurrano: "Gnam gnam" indicando il loro piccolo e mostrando un biberon vuoto. Scene purtroppo gia' viste altrove, anche a Milano...
In mezzo a questo variegato, complesso universo, girano anche qui, turisti che definiremo a' la Vang Vieng (cfr. puntate precedenti): girano a torso nudo, con birre in mano, con mini pantaloncini o tette (scusate!) fuori dalle mini canottiere, a volte a caccia di droga che ti offrono per le strade, la sera (pure qui c'e' un happy ristorante che fa pizze a base di sostanze psicotrope!) e che hanno il coraggio di dire alle mamme che chiedono l'elemosina: "I don't have any money!", con i dreadlocks ben curati finto rastaman o le meches appena uscite dal parrucchiere.
A Phnom Penh girano, secondo le stime dell'UNICEF, tra i 10.000 e i 20.000 bambini di strada, la meta' dei quali dipendenti da sostanze per necessita' loro o dei loro sfruttatori.
Forse perche' siamo invecchiati, fose perche' giriamo in bici necessariamente in stretto contatto con la realta' che ci circonda, forse perche' siamo stati via un anno intero, ma ci sembra palese la decadenza morale, e non solo, dell'Occidente, per lo piu' obeso, viziato e colonialista.
Ci solleva il morale un anziano cicloturista francese, in pensione, che ci riconosce suoi "simili" e che, tra le altre cose, afferma (nonostante i suoi figli cerchino sempre di dissuaderlo dal partire): "In tre mesi di bici si vedono piu' cose di quante la maggiore parte delle persone vede in una vita intera". Se si sa guardare, aggiungiamo noi.
Per quanto riguarda l'impressionante bellezza del sito religioso piu' grande al mondo, patrimonio UNESCO, la magnifica commistione di jungla e rovine archeologiche, la vastita' di Angkor, rimandiamo a questi due siti

www.world-heritage-tour.org/asia/southeast-asia/khmer-empire/cambodia/angkor/map.html
www.angkor-ruins.com (in giapponese e inglese)
Diciamo solo che e' valso il viaggio, che e' un sito che regge il confronto con i maggiori altri al mondo, forse piu' noti e che, nonostante abbiamo pedalato da mattina a sera per tre giorni interi(tanto durava il biglietto acquistato) non abbiamo finito di vedere i suoi templi.
Ci fermiamo in questa citta' di contrasti anche per visitare, in maniera purtroppo superficiale, il lago unico al mondo, il Tonle' Sap. La sua unicita' sta in questo: da maggio a ottobre, il livello del Mekong sale a causa delle piogge al punto da far invertire il corso del fiume dal nome omonimo, facendolo scorrere verso il lago che cresce, allagando la piana circostante (la superficie passa da 3.000 a 7.500 kmq). Esistono percio' villaggi fluttuanti che si spostano a seconda della stagione e del livello delle acque. Quando, tra ottobre e maggio, il livello del Mekong diminuisce, il fiume Tonle' Sap inverte nuovamente il suo corso e le acque del lago possono defluire.
Questo straordinario fenomeno fa del T. Sap uno dei bacini d'acqua dolce piu' ricchi di pesce al mondo e la principale fonte di cibo della Cambogia, sfamando piu' del 40 % della popolazione.
Indovinate un po'? e' uno degli ecosistemi piu' a rischio a causa delle dighe progettate sul Mekong e che servono soprattutto alla Cina e alla sua voracita' di kilowattora. La Cambogia e' il Paese dove un kw/h costa di piu', sembra, al mondo, ma anche uno di quelli che consuma di meno, come molti Paesi poveri.
Visitiamo anche il wat Athvea (che vuol dire tempio del niente perche' non se ne sa nulla), fuori dai circuiti turistici, in mezzo la campagna che circonda S.R. Ci raggiungono correndo due ragazzi a servizio dai monaci del tempio nuovo; come per molti altri, questo e' l'unico modo per avere un'educazione e aiutare le famiglie: lavorare per i bonzi, preparando il cibo, pulendo e seguendone la faticosa routine che inizia alle 3.30 della mattina. Ci parlano del tempio, ma soprattutto di loro e dei loro sogni di adolescenti nella Cambogia in mutamento. Ci mostrano anche dove i resti dei poveri (che non possono perrmettersi le mini pagode per le loro ceneri) vengono tenuti: dietro l'altare del Buddha, in pezzi di stoffa in foggia di stupa, in attesa di tempi migliori.

Ritorni
Lasciamo S.R. per Sisophon, citta' crocevia delle due uniche strade maggiori asfaltate. Lungo la strada vediamo tante persone pescare nell'acqua marrone-aranciato di pozze e canali a bordo strada. Chi immerso, chi lanciando reti rotonde con ai bordi pesi per imprigionare i pesci in una sorta di sacca, chi a mani nude. Quasi nessuno con la canna.
Ci superano furgoni iper stipati di persone, camionette iper stipate di persone e cose con motorini che penzolano giu' per meta' e c'e' pure sopra il proprietario che si tiene. Un tizio in motorino affianca Gaia e dopo le solite domande di rito le chiede se quello avanti (Ale) sia suo padre!
Dormiamo in una bella casa di legno che sembra vecchia e gia' al tramonto udiamo dei canti (gia' sentiti alla periferia di S.R.) che sembrano funebri. Gaia va a sbirciare ed effettivamente alcuni stendardi bianchi e la presenza di monaci segnalano che e' in corso una veglia. I canti sono tristi, struggenti, ma non disperati. Ricordano un blues degli schiavi africani o le canzoni irlandesi per quelli che partivano per gli Stati Uniti. Si fermano poco dopo il tramonto e riprendono prima dell'alba. Una voce di donna si alterna a quella di un uomo.
La mattina dopo, l'oste, che parla un ottimo inglese, ci spiega che sono proprio lamentazioni funebri che ricordano che, quando sei vivo, non pensi alla morte, ma poi quando muori quello che hai fatto conta, perche' altre esistenze si aprono.
La tristezza non e' totale, e' la tristezza di una partenza; la morte, anche qui in terra khmer, e' solo un passaggio: altre vite attendono le anime khmer.
Anche noi siamo tristi. Anche noi partiamo. Lasciamo Sisophon per passare la frontiera questa volta a Poipet-Aranya Prathet per approdare in terra thai insieme ad una miriade di carri e carretti (i piu' strani hanno la trasmissione manuale fatta da una sorta di pedale con una lunga catena connessa alla ruota anteriore), poveri come chi li spinge: sono i cambogiani della "DDR" che vanno a rifornirsi di ogni tipo di mercanzia nella "BRD", sotto gli occhi impassibili dei doganieri...
Ora, arrivati a Sa Kaeo, 300 km ci separano dalla capitale e solo 10 giorni dal nostro ritorno.

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