lunedì 21 settembre 2009

Partiti per la tangente

Chiunque sappia un po' di dinamica o semplicemente ami i proverbi (come Gaia), sa che partire per la tangente significa fondamentalmente che, nonostante tu voglia andare in un certo posto, c'e' il rischio di finire in un altro: beh, e' quello che ci e' successo.
Sconfitto il parassita che caminava con passo marziale sotto la pelle della gamba di Ale, abbiamo deciso di ritardare un po' l'ingresso nella megalopoli e proseguito il nostro pedalare a ridosso della Birmania/Myanmar e della sua dittatura militare per arrivare quasi al Passo delle Tre Pagode. Insomma, ci siamo fermati a Kanchanaburi e da li' siamo ridiscesi. Oggi siamo a 50 km da Bangkok e davvero domani cercheremo di entrarci. A dio piacendo, ovviamente. In questi mesi stanno succedendo cosi' tante cose che non siamo piu' certi di nulla, nemmeno delle piu' semplici. ma riprendiamo da dove avevamo lasciato.

Con la scimmia sulla schiena
Lasciamo Chumphon con un solo, apparentemente semplice, obiettivo: seguire la costa est. La pioggia scende copiosa, ma solo per i primi km, cedendo poi il posto ad un sole di quelli che ti fanno dimenticare tutto. Percoriamo stradine secondarie che ci avvicinano e allontanano dal mare, regalandoci pero' scorci da documentario. Dall'alto di uno dei templi piu' kitsch mai visti neppure in India (tra le statue, due occidentali con occhiali da sole!), intravediamo un'enorme baia circondata, quasi chiusa, da enormi falesie. Sembra la Polinesia e decidiamo di vedere se li' giu' c'e' da dormire. All'imbocco di una stradina semi asfaltata, a gesti, chiediamo ad un local se ci sia da dormire. Lui ci risponde di si' e la imbocchiamo. Dopo vari km, ci ritroviamo in un villaggio di pescatori piuttosto povero e non dotato di alcuna infrastruttura turistica, ne' del solito posto dove anche i locals mangiano. Chiediamo ancora e ci dicono che li' in fondo un posto per dormire c'e' per davvero. Tra le barche in secca, un complesso di bungalow c'e', ma a prezzi inavvicinabili nonostante siamo fuori stagione e gli unici turisti. Ovviamente non parlano inglese. Chiediamo se c'e' un'altra sistemazione (sempre a gesti) e finalmente ci viene mostrata una stanza che decidiamo di prendere: la baia davvero merita e la casa, tutta in legno con architettura tradizionale thai, anche. Il prezzo e' alla portata anche delle nostre tasche. Il bagno e' pero' fuori. Godiamo di un tramonto meravigliosamente rosso sulla spiaggia e riusciamo anche ad ordinare da mangiare, cosa, vi garantiamo, non semplice. La stellata, in un luogo quasi senza energia elettrica, e' di come non ne vedevamo da tempo. Le uniche luci sono quelle delle lampare dei pescatori del villaggio li' accanto. L'alba e' altrettanto magica, tanto che decidiamo di ritardare la partenza per passeggiare con la bassa marea.
Il sole, qui dove la stagione delle pioggie non e' ancora incominciata, e' bollente. Siamo finalmente accompagnati da un uccello interessante che ha sulle ali una V turchese; non ha il canto del kokaburra, ma ci regala un po' di colore. Siamo in una zona famosa perche' si trova lungo la rotta migratoria di numerosi uccelli, ma non e' ancora il tempo per poterseli godere e di locali non sembrano essercene molti, a parte i merli indiani....
Ci fermiamo nella baia di Bang Saphan dove fuori dal nostro bungalow scorazzano scoiattoli color antracite e in bagno appare, piuttosto restio ad andarsene, un ragnone formato australiano. Gaia lo allontana a distanza di sicurezza con un po' d'acqua.
Lungo la strada, il traffico e' sporadico, molto locale: ad un certo, punto il classico vespino ci supera. Pero', al posto del tipico secondo passeggero, dietro, seduta e attaccata al guidatore come se non facese altro da sempre, c'e' una scimmia. E' un lavoratore che sta andando dove deve andare e usa il mezzo che piu' gli vien comodo. E' un primate fortunato: un lavoro ce l'ha e puo' permettersi di andarci in moto.

Topaia heritage
Per raggiungere Prachuap Khiri Khan, passiamo ancora per baie incantevoli e resort davvero esclusivi che paiono vuoti. Ma ad un certo punto, anche questa strada da sogno finisce e siamo costretti e riprendere la tremenda autostrada.
Andiamo velocissimi e ci fermiamo in un ristorante per camionisti dove, pur non parlando inglese, sono interessati a comunicare con noi e dunque ci servono quello che chiediamo!
Qui, dalla costa al confine birmano, ci sono meno di 11 km e poco prima da costa a costa
la terra e' larga solo 50 km ca. (infatti si parla da piu' di un secolo di costruire un canale stile quello di Suez, indovinate chi lo vuole con forza?).
Qui c'e' un lungomare che sembra la Promenade des Inglais di Nizza dalla quale si gode un panorama notevole sulle due isole di fronte che ammiriamo con il surplus di un doppio arcobaleno, visto che un temporale le sta bagnando.
Al mercato acquistiamo una simil marmellata in secchiello di plastica (su insistenza di Ale): e' alla simil guava ed e' simil dolce. In pratica, mangi solo nocciolini. Per tanti giorni. Ogni mattina, Gaia maledice Ale. E crocchia gandolini sul pane.
Costeggia che ti costeggia, nel vano tentativo di scampare all'autostrada, arriviamo alla baia di Ao Noi e ci facciamo anche un po' di sterrato (quante urla, Ale! e dove mi hai portato, e le gomme si rovinano e le camere d'aria si bucano...), poi una sorta di tunnel che passa sotto i binari feroviari (Ale deve piegare il capoccione per passarci sotto!) ci fa riemergere sull'asfalto in corrispondenza di una piccola stazione ferroviaria. La baia e' bella e il villaggio di pescatori-costruttori di barche di legno tradizionali pittoresco come da copione. E' in fase di edificazione un grande wat con case per i monaci. O un resort che riprende la forma dei templi.
Alle 12, Gaia si vuole fermare per il pranzo, mentre Ale ancora non ha digerito la colazione. Si contratta e alle 12.01 si pranza. Dopo il temporale di rito, entriamo nel traffico esagerato di Hua Hin.
La citta' e' molto piu' turistica di come ce l'aspettiamo e forse per fuggire all'occidentalizzazione selvaggia delle vie centrali, scegliamo di soggiornare in un alberghetto che, come quello di Phang Nga, e' apparentemente chiuso, in realta' aperto in ristrutturazione. Vi si entra montando su due assi parallele. Sotto, il mare, che si intravede nei buchi del pavimento dei corridoi. L'edificio merita di inaugurare la nuova categoria di topaia heritage in quanto in teak e di almeno un secolo. La stanza e' angusta, il tetto di asbesto, ma la vista e' la stessa dell'Hilton che rovina la baia, li' accanto.
Il night market e' molto tourist-oriented e poco verace. Infatti, lo stesso dolce di cocco che mangiamo in tutte le citta', qui e' venduto in mezza noce di cocco. Cosi' i turisti zucconi capiscono cos'e'!
L'attrazione principale e' l'antica stazione feroviaria con attigua sala d'attesa reale.
La vicina cittadina marina di Cha-am e' invece molto meno frequentata da occidentali e somiglia molto alle nostre stazioni balneari per famiglie della Liguria.

Mangiamo alberi
Ci portano a Phetchaburi gli ultimi tratti di strada costiera o simil costiera che ancora riusciamo a seguire. Passiamo per zone palustri, risaie, saline abitate da stormi interi di aironi e altri trampolieri. Abbiamo anche la fortuna di vedere numerose cicogne, con il loro volo pesante. Qui ad ottobre e' il paradiso dei birdwatchers.
La citta' e' un insieme splendido di case in teak e complessi monastici (ne citiamo uno, il wat Mahathat) piu' o meno antichi. Sembra completamente ignorata dai turisti. Tant'e' che, quando entriamo in uno dei templi centrali, un abate che parla inglese ed e' stato in Italia, ci fa strada, mostrandoci anche alcune delizie artistiche nascoste dietro le porte di un tempio e gli edifici di 500 anni fa sopravissuti agli assalti birmani. Ci ricorda che la Via Mediana e' quella da seguire secondo gli insegnamenti del Buddha: essere troppo felici non va bene, si rischia di cadere nella depressione non appena capita qualcosa. Essere troppo tristi, nemmeno: si rischia di rimanere inerti, paralizzati dal dolore. Mangiare troppo, non va bene, cosi' come digiunare. Dobbiamo cercare il giusto equilibrio.. E' difficile, ma dobbiamo provarci. Tutto non e', in fondo, che preparazione alla morte.
Prima di lasciarci alle 17 per la preghiera, ci mostra la zona residenziale dei monaci: tutto in legno, regna una incredibile tranquillita', come mostra un gattone dormiente.
Per noi ciclisti, il giusto equilibrio rispetto alla dieta, e' cosa impossibile da rispettarsi. Abbiamo sempre una fame atavica e anche in questa citta' proviamo le cose nuove che le signore del mercato offrono sulle loro bancarelle tentatrici: Ale pranza a base di albero di palma da zucchero e Gaia con il fiore di banano che da tanti anni voleva provare. Il tutto accompagnato da una quantita' di riso che lasciamo ad altri giudicare se sia confacente alla Via Mediana.
Ci sono anche alcuni templi trogloditi, infestati da scimmie, con pochi fedeli perche' gestiti da religiose (anziche' religiosi) che qui valgono meno e quindi nessuno e' interessato a rendergli omaggio.
Il vero gioiello architettonico e' costituito dalla collina alle porte della citta', interamente occupata da numerosi edifici reali, purtroppo caduti in abbandono, ma in parte per fortuna recuperati. Dalla cima si gode un panorama incredibile su citta' e colline circostanti.

Inglese broccolino
Siamo stanchi. Ma stanchi stanchi. Non sappiamo se sia il caldo, davvero aspro prima dell'arrivo del monsone, o l'umidita' che porta con se', i tanti km macinati o forse le notizie che arrivano dall'Italia, ma la mattina rispettare la sveglia delle 6 e' difficile e la sera le occhiaie sono profonde. Nel tentativo, l'ennesimo, di evitare lo stradone che aumenta la stanchezza, raddoppiando lo stress, decidiamo di allungare la strada seguendone una che e' cosi' sperduta che una macchina (una delle due che vediamo) si ferma e ci chiede dove stiamo andando. Qui e' zeppo solo di cani, che come sempre ci abbaiano e inseguono se non ci fermiamo subito per tenerli a bada.. Non c'e' asfalto, ma risaie, campi, canali, case di foglie di banano e tantissimi uccelli palustri: i paesaggi dell'Oriente da depliant turistico dove pero' i turisti non ci sono mai.
Dopo molti km, pero', ci troviamo alle porte del wat Tham Khao Yoi, un tempio troglodita zeppo di pellegrini buddisti, neppure citato dalle guide. Forse e' dedicato alle scimmie, perche' i fedeli acquistano per loro del mais che poi gli gettano. La grotta inferiore e' anche qui gestita da monache, come se le donne fossero state relegate alle grotte. Non le abbiamo viste in templi normali, fin'ora.
Tornati inevitabilmente in autostrada, ci aspetta per la nostra delizia, un cartello enorme, di quelli ufficiali dell'ente stradale: Exit. Keep lift (anziche' sinistra, left, hanno scritto ascensore!). Acquistiamo poi del pane che anziche' essere il piu' comune per sandwich, e' un pane molto speciale fatto di... strega di sabbia (sandwitch)! Questo per dire dei problemi con l'inglese che ci sono qui, nonostante l'afflusso turistico.
E' qui che decidiamo, anziche' svoltare a destra per Bangkok, di raggiungere Ratchaburi, una citta' che per il suo mercato notturno merita la deviazione.
L'hotel, contro ogni previsione, e' splendido e ci regala un sonno finalmente comodo.
La strada e' costellata di siepi tagliate in foggia di animale, anche di quelli preistorici ed esotici (giraffa!), come se il personaggio del film di Tim Burton fosse passato di qui: vince il premio verosimiglianza il canguro che bruca.

Tre tigri contro tre tigri
Ci spostiamo ancora piu' ad ovest, per raggiungere Kanchanaburi che al centro di una serie incredibile di attrazioni naturali e non e che ospita il tristemente noto ponte sul fiume Kwae (da cui il famoso film).
Per riprenderci un po', decidiamo di fermarci tre notti e di affidarci a mezzi altri per visitare un po' questa zona. Siamo soprattutto attratti dal monastero delle tigri e dalla possibilita' di effettuare un giro in elefante, visto che qui ancora sono numerosi e vengono utilizzati anziche' per l'industria del legno (ormai meccanizzata), per quella turistica.
Dalla descrizione, il Tiger temple (Wat Luanga Ta Bua Yanna Sampanno) e' un luogo che da anni offre rifugio alle tigri ed altri animali in difficolta' (perche' sottratti per varie ragione al loro ambiente naturale) dove le tigri coabitano con i monaci e si possono toccare e vedere da vicino. In realta', si rivela un'impresa turistica enorme, dove vediamo solo tigri alla catena e una pletora di personale poco capace a trattare i felini, mentre alcuni monaci paiono piu' sadici che buddisti. Tutti sembrano intenti a mostrare e a mostrarsi al pubblico pagante, quasi fossero domatori e strattonano in malo modo le bestie. L'approccio amorevole dell'Australian Zoo ci pare molto lontano, cosi' come molto lontano ci pare l'obiettivo (dichiarato) di rimettere le bestie in liberta' almeno i nuovi nati.
Pero' le tigri le tocchiamo. Siamo tristi per lo spettacolo che offrono, per il loro doversi mettere in mostra, come al circo, anche nelle ore piu' calde del giorno quando vorrebbero dormire al riparo della foresta. Per questo, con tanto amore e speranza, diamo le nostre carezze sulla loro ruvida pelliccia di fiere. Lasciando stupito il personale perche' non vogliamo essere fotografati. Sembra di essere tornati agli anni '70, quando chiunque poteva disporre di animali esotici come piu' gli pareva...
E' con il cuore stretto che torniamo in stanza, sperando che non si ripeta lo stesso penoso spettacolo il giorno dopo, al campo degli elefanti.
Il giro sul bestiolone e' prorpio bello, certo non come lo sarebbe farci un serio trekking di giorni, ma emozionante. Gli elefanti sono trattati bene dai loro guardiani-fantini e volentieri ti portano in giro, anche se vorrebbero mangiarsi qualche ramo di acacia in piu'. Mr. Tuffy ad un certo punto diventa mahut e, lasciato il sedile, si mette a cavalcioni sulla testa del pachiderma e, nonostante la grande paura, soprattutto di cadere, tiene le posizioni e porta Gaia al campo base! e l'elefante alla sua pappa meritata. Certo, i mahut non sembrano ricchi, a giudicare dalle case di paglia dove ancora vivono con le loro famiglie. Qualcuno guadagna dai giri piu' di loro...
Una zattera fatta di bambu' scivola dolcemente per un tratto del Kwae. Proseguiamo poi in van per le spettacolari cascate di Erawan (o dell'elefante a tre teste), che sono per bellezza, ci dicono, le seste in Thailandia. Il trekking per vedere i loro sette livelli e' una piacevole salita della collina dove, quasi ad ogni livello, meravigliose pozze di acqua lattiginosa ti aspettano invitanti con i loro 27 gradi di freschezza. Ad un livello, una doccia naturale da film ti si offre, mentre al quinto livello ci si puo' tuffare o utilizzare uno scoglio come scivolo, tanto e' liscia la pietra. Solo i pesci che fanno il peeling, non appena posi il piede sul fondo, costituiscono un piccolo fastidio in questo paradiso, preso d'assalto anche dalle famiglie thai in quanto e' domenica.
La giornata si conclude con la visita alla Krasae cave, dove numerosi prigionieri della II guerra mondiale venivano ricoverati e morivano di stenti e malattie, un tratto lungo la ferrovia della morte (cosi' chiamata perche' un numero spaventoso di soldati perirono durante la sua costruzione) e il tramonto sul ponte del Kwae che piu' che rendere omaggio ai morti, e' un concentrato di bancarelle di ogni tipo, comprese quelle di cd musicali sparati a tutto volume.
Insomma, Kacha e' una piacevole cittadina sul fiume, in una zona della Thailandia, ai confini con la Birmania, dove potresti stare settimane senza mai annoiarti, anche solo per i paesaggi che offre.
La tappa successiva ci vede arrivare, con una media straordinaria (ci siamo riposati!) a Nakhon Pathom dove c'e lo stupa piu' alto al mondo (!). E' dove rubano, fuori da un tempio, a Gaia.

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